La Fenomenologia come Esercizio spirituale (408): Ora sappiamo
Lunedì 31 marzo 2025
Nel tempo che resta, possiamo dire di sapere cosa ci riservino le esperienze sentimentali vissute. Nella dimensione concreta dei vissuti intenzionali soltanto prende corpo il significato che cerchiamo di dare alle cose.
Non basta vivere e basta. Occorre tornare a vivere ogni giorno ciò che pure ci è accaduto di vivere. Propriamente, l’Erleben è rivivere, un riproporre alla coscienza i suoi contenuti, che si affacciano a farci visita incessantemente: chiedono una elaborazione.
Oggi sappiamo che i nostri vissuti sono intenzionali, che dirigiamo intenzionalmente la coscienza verso di essi, per farne qualcosa. Abbiamo chiamato elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta il lavoro della riflessione, che non è mai disgiunto dal patire i nostri accadimenti sentimentali. Si tratta di salvare l’infranto dal rischio della dimenticanza o che cada preda di pericolose rimozioni.
Possiamo dire di non aver rimosso mai alcunché, di aver fatto i conti con tutto il nostro Zuydersee. Crediamo di aver bonificato quasi tutto quest’ultimo, salvo ciò che resiste ad ogni elaborazione e che ci accompagnerà per sempre. Abbiamo voluto che la nostalgia-gratitudine prevalesse sulla nostalgia-rimpianto. Abbiamo deciso di aver avuto un’infanzia felice. Ci siamo congedati da tutto il nostro passato, senza, per questo, averlo dimenticato.
Riusciamo a consistere nel presente, che è il tempo dell’amore, liberi dai pesi morali che rischiamo di portarci dietro per sempre. Il grande lavoro del lutto è finito.
Esercizi fenomenologici (106): Dare, finalmente, un oggetto all’amore
Domenica 31 marzo 2024
Ci accade di inseguire per tutta la vita il sogno di un grande amore, e di continuare a cercarlo anche dopo averlo trovato, e non perché, come credevamo, il desiderio sia ancora capricciosamente insoddisfatto. Non la sua erranza, non l’aporia costitutiva del desiderio stesso, che non possa appagarsi mai degli oggetti a cui tende a ricongiungersi, come se il suo fosse sempre un tornare, attingere un’origine immemoriale senza nome. Abbiamo chiamato Bellezza la cosa che si faceva oggetto d’amore per noi, anche quando le sembianze della persona che credevamo di amare non facevano pensare in alcun modo all’ideale di perfezione e armonia che eleggevamo a meta ambita, bersaglio da raggiungere. Allora avremmo dovuto chiederci, finalmente, perché le salde apparenze a cui ci aggrappavamo non ci portassero a colei che stavamo già amando. È questo che facciamo: cerchiamo di rendere oggetto d’amore per noi i primi palpiti, i sorrisi, le piccole aperture a noi, il solo fatto che qualcuno parli a noi, proprio a noi, prima ancora che quei piccoli inizi che non sono ancora inizi si facciano interesse manifesto per noi. La bellezza non è sempre sintetica, già data, raccolta interamente in un volto, uno sguardo, una voce. Più spesso, dobbiamo costruire ciò che prendiamo ad amare . Non possiamo fare altro che muovere verso un fantasma, non possiamo fare altro che amare i nostri miti, ciò che non è. Tutte le volte che ci siamo allontanati da lei, l’abbiamo cercata nel nostro cuore, consultando i ricordi che hanno contribuito a far vivere l’ultimo amore. L’accordo tra i nostri fantasmi e le epifanie di lei decidono di noi, se ci perderemo per un sogno che si realizza oppure no.
Ci siamo avvicinati infinite volte all’oggetto estatico, cercando in tutte le sue manifestazioni, visibili e invisibili, la cosa che cercavamo di rappresentarci, facendola vivere dentro di noi, per imparare a convivere con i fantasmi della mente, indispensabili per dare consistenza alle epifanie mondane di cui facevamo esperienza. Siamo tornati sempre a chiamare Bellezza i frammenti, i relitti, le piccole percezioni, i vezzi e le attrattive, anche in mezzo alle più grandi emozioni e alle file di continuità, a dispetto di tutte le smentite. In mezzo alla felicità più grande, all’appagamento, alla beatitudine, alla pace dell’anima, senza disdegnare il frastuono delle incomprensioni, le attese appassionate, la tensione prolungata fino allo spasmo e al timore di perdere ogni cosa, ci siamo chiesti come avremmo dovuto chiamare le nostre tranquille ostinazioni, quel restare comunque sulla scena, troppo spesso deserta. Muta.
Non abbiamo mai avuto il coraggio di dire cosa amassimo veramente, per non continuare a dire stancamente bellezza. Cos’altro facciamo, nel tempo che resta, se non salvare quel che resta della bellezza, pur senza rifugiarci nel ricordo di un tempo in cui essa si imponeva alla vista e non bisognava cercarla, perché era lì, a portata di mano! Possiamo rinunciare a cercarla in ciò che è stato, anche perché non ne ricaveremmo motivo di conforto né risarcimento, per continuare a consistere nel presente, che è ancora il tempo dell’amore. Il mero piacere, gli infiniti piaceri che ci concediamo per dare senso ai giorni servono a riempire l’otre bucato.
Sarà altro, dunque, che diciamo di amare. Se di una persona si tratta, quello che ci viene incontro, fin dal primo Sì, fin dal consentimento convinto a un’esistenza che esiste, è la qualità di valore di un’esistenza, il mondo dei valori di cui si nutre l’esistenza autentica. In mezzo a ciò che muta, cerchiamo di legare le nostre ragioni a qualcosa che non muta, che torna a manifestarsi ancora a noi, ogni volta di nuovo, con immutata capacità di sorprenderci, come se stessimo assistendo per la prima volta allo spettacolo della presenza. Se impareremo a non esaurire le nostre ragioni nei piaceri, pure possibili, e nel godimento sessuale, pure possibile, nell’esperienza ripetuta del contatto e dello scambio emotivo e dello scambio di risorse, il vero oggetto d’amore sarà una presenza: oltre tutti gli invisibilia di lei, che pure sapremo attingere, il vero oggetto d’amore è la sua presenza, con le sue strutture, e le gerarchie di valore di cui lei è portatrice.
Se principialmente si mostra a noi e si dà il bene della presenza di lei, che consente ad essere ancora presente per noi, si fa sentimento del tempo, cioè suscettibile di durare nel tempo, il suo valore, il suo valore di rarità nel tempo, per questo ci acconceremo ad una cura, a prenderci cura di lei, a proteggere lei e l’amore dalle trasformazioni che subiranno nel tempo. Ogni giorno diremo Sì alla sua presenza, che non cesserà, per questo, di essere tale, oltre la stessa soglia del tempo. Ci sorprenderemo di noi stessi, del nostro sguardo, ai confini del quale ci sarà sempre lei, presente e viva, e il suono di lei, e il profumo delle cose, e la felicità mentale, perché non smetteremo mai di sentire la sua presenza.
Immaginare la presenza, tuttavia, come infinita ripetizione del sempre uguale è sicuramente fonte di innumerevoli equivoci che portano a un punto morto la riflessione sulla nostra esperienza. Preferiamo parlare di ripetizione creatrice, per riferirci al compito che ci spetta, di fronte all’inesauribilità della presenza dell’altro. L’esperienza come fonte inesauribile di conoscenza richiede da parte nostra uno sguardo che sappia tenere insieme ciò che muta, sullo sfondo delle invarianze della presenza.
Quando raggiungiamo la maturità affettiva, non è difficile rinunciare all’idea che ci muova il desiderio e che amiamo essenzialmente la bellezza. Rispetto a quest’ultima, non dobbiamo più chiederci come sia possibile continuare ad amare una persona che è sempre meno bella, perché è altro che amiamo. Impegnati nella cura del nostro desiderio, perché non danneggi il desiderio dell’altro, con lo sguardo rivolto verso un’altra idea della bellezza, diffidenti nei confronti della luce, troviamo il nostro Oriente nella considerazione dell’intero della persona di lei. Non più soltanto questa o quella parte del corpo di lei esaurirà il nostro sguardo: la percezione affettiva delle sue qualità di valore ci orienterà oltre vezzi e attrattive, mossi da un desiderio che aspira ad abbracciare il corpo vivente linguistico che si declina nel mondo secondo sue ragioni. Seguiremo la traccia del bene che ci riconduce sempre a lei e alle sue ragioni.
Questi due vasi di cristallo sono il dono che volle farci la madre di Federico, un alunno di liceo, poco prima di morire, a testimonianza del fatto che possiamo continuare ad amare le persone che hanno saputo riconoscere la nostra presenza e darle senso. Ci sorprende la loro presenza nella nostra vita. Pur nella loro fragilità, i vasi hanno resistito alle insidie del tempo, anche se esposti alla disattenzione generale. Hanno nutrito lungamente la nostra anima, fino a rendere eterno il ricordo di chi ne fece dono a noi.
